Con la sentenza n. 150 del 2020, la prima nella storia della Repubblica firmata da tre donne, la prof.ssa Marta Cartabia come presidente, la prof.ssa Silvana Sciarra come redattrice e la dott.ssa Filomena Perrone nella funzione di cancelliere, la Corte costituzionale ha decretato la bocciatura definitiva del sistema di calcolo delle “tutele crescenti” introdotto dal decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (c.d. Jobs Act), applicabile agli operai, agli impiegati e ai quadri assunti con un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015.
La pronuncia in commento riprende in gran parte le argomentazioni svolte nella precedente sentenza n. 194 del 2018, con la quale la Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, primo comma, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, nella parte in cui determinava l’indennità per licenziamento illegittimo intimato senza giusta causa e senza giustificato motivo oggettivo o soggettivo in un “importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio” entro comunque un limite minimo di quattro mensilità e massimo di ventiquattro mensilità (poi aumentati rispettivamente a sei mesi e trentasei mesi dal c.d. Decreto Dignità del 2018).
Nel dettaglio, l’art. 4 del Jobs Act prevede che il giudice, ove riscontri che il licenziamento è stato intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’art. 2, secondo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, o della procedura di cui all’art. 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, dichiara estinto il rapporto e condanna “il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di anzianità di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità”, indennità dimezzata nel caso di imprese che non raggiungano i requisiti dimensionali dell’art. 18, ottavo e nono comma, dello statuto dei lavoratori.
Secondo i giudici della Corte, il legislatore, pur potendo predefinire l’importo minimo e massimo spettante al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, non può stabilire un sistema rigido e automatico di determinazione dell’indennità, vincolato esclusivamente all’anzianità di servizio e senza alcun criterio correttivo, in quanto inidoneo a esprimere “le mutevoli ripercussioni che ogni licenziamento produce nella sfera personale e patrimoniale del lavoratore”, rendendo di fatto marginali i predetti vizi formali e procedurali.
La Corte, quindi, ha ritenuto tale meccanismo di calcolo contrario ai principi costituzionali di uguaglianza e di ragionevolezza poiché “non compensa il pregiudizio arrecato al lavoratore dall’inosservanza di garanzie fondamentali e neppure rappresenta una sanzione efficace, atta a dissuadere il datore di lavoro dal violare le garanzie prescritte dalla legge”, soprattutto nei casi di modesta anzianità di servizio.
Di conseguenza, il giudice, per determinare l’indennità spettante al lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, dovrà utilizzare criteri di apprezzamento quali in primis l’anzianità di servizio, la gravità delle violazioni commessa dal datore di lavoro, il numero degli occupati, la dimensione dell’impresa e il comportamento e le condizioni delle parti, parametri già utilizzati dalla giurisprudenza anche prima dell’entrata in vigore del Jobs Act.
In conclusione, con la sentenza in commento la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, limitatamente alle parole “di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.
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